Teatro Fraschini di Pavia


Giovedì 18 dicembre, ore 21 - Teatro Fraschini di Pavia
Moby Dick di Antonio Latella
Tratto dal romanzo di Melville. Regia Antonio Latella. Con Giorgio Albertazzi

Il famoso romanzo di Herman Melville (pubblicato nel 1851), diario di un viaggio iniziato intorno al 1840, racconta l’avvincente caccia alla balena bianca che straziò una gamba al capitano Achab, giustiziere a tutti i costi, che inseguì l’agognata preda fino al gorgo finale e che restituì solamente un unico superstite, tratto in salvo da un’altra baleniera e pronto a testimoniare. Un testo allegorico che per la sua densità e complessità è considerato un’epopea epica imperniata sulla figura archetipica del suo protagonista.La scelta drammaturgica attuata da Federico Bellini è quella di impasto tra le parole tragiche del libro con quelle che rimandano a passi emblematici di Dante e di Shakespeare. Perché non è solo il romanzo ad interessare, ma anche il senso della vita con le sue contraddizioni e soprattutto con l’idea dell’ incompiutezza umana. Il mare infatti decide il destino degli uomini, ne fagocita le sicurezze, alimenta e anche uccide con spietata crudeltà. Il mare è l’illusione della fuga, perché chi sceglie il mare, sceglie le leggi della natura e non dei cittadini. Chi sceglie il mare, sceglie di non camminare.Lo spettacolo è diretto da Antonio Latella, allievo attore alla scuola di Gassman, uno dei registi italiani più avvincenti, rigoroso nelle scelte dei testi (William Shakespeare, Jean Genet, Pier Paolo Pasolini), nel lavoro di preparazione con gli attori, assolutamente passionale e appassionato, forte di una comunità di artisti che condivide con lui il senso di fare teatro in una totale fusione di intenti. Il regista, sulla riscrittura scenica di Federico Bellini, si concentra sul racconto della preparazione del viaggio vendicatore, al quale desiderano partecipare una schiera di uomini pronti a riversare in mare le proprie illusioni, decisi ad affrontare la lotta, tra musica canto e silenzio. Un silenzio che scaturisce anche dal linguaggio dei segni con cui parlano i marinai e che sottende il silenzio del mondo.La ciurma, un equipaggio di ufficiali in divise severe, marinai e ramponieri è capeggiata da Ismael, testimone e narratore della vicenda. Un gruppo messo in scena con grinta, che ben incarna lo spirito dei cacciatori perennemente in movimento su e giù dai ponti. In alto, la cabina dell’uomo di comando, chiuso nel suo tormento dubbioso, immerso nel bianco. Non è un lupo di mare: la lotta che intraprende è tutta interiore e si conclude con una sconfitta umana predestinata ed inevitabile. Il rapporto che scaturisce tra il vecchio capitano e il giovane Ismael è quello dell’eroe e del suo erede, del padre e figlio alla fine ricongiunti. Egli chiede ad Ismaele energia prima di consegnarsi al dopo, prima di abbandonarsi vinto al suo testimone, disteso a terra nella più totale impotenza. Il mitico Capitano della baleniera Pequod appena quindici anni or sono viveva attraverso una interpretazione esplosiva di un attore irruento ed efficace come Vittorio Gassman dentro uno spettacolo dai modi eroici galleggiante nel porto di Genova (vi compariva un Latella giovane sicuramente attratto dall’idea di mettere in scena a suo modo il romanzo). Oggi Giorgio Albertazzi, che veste i panni di un Achab - letterato chiuso nel suo intimo studiolo pieno di libri, ne fa un esempio di tormento interiorizzato con la sua recitazione rarefatta e sublime. Ultimamente si è definito uno scrittore che va in scena ma non recita, con un lavoro incentrato sul tema del silenzio e sul soggetto artistico piuttosto che sull’interpretazione. La parola -afferma Albertazzi- deve esprimere una bellezza visiva e musicale, deve colmare un’imperfezione, deve essere una macchina desiderante, e bisogna valorizzare gli spazi che ci sono tra le parole, agendo in sottrazione come in questo spettacolo. Albertazzi, togliendosi gli orpelli del personaggio, alla fine, si mostra unicamente come se stesso.

Nessun commento: